La erba cativa non more mai
La erba
cativa non more maiCome dico spesso alla gente questo libro è un ibrido:
come me, come tanti italo-australiani. I miei genitori, come la maggior
parte degli immigranti italiani della loro epoca, parlavano per lo più
il dialetto, un po’ l’italiano e pchissimo l’inglese. A noi ragazzi e
ragazze raccontavano le loro storie, gli avvenimenti della loro vita in
Italia ed io ascoltavo, spesso pensando che esagerassero. Parlavano
della Guerra, di quanto avessero sofferto da piccoli, di come avessero
patito la fame, subito I bombardamenti, di come avessero visto morire
amici e parenti, dalle malattie, ma io non riuscivo ad inserire I loro
racconti in un contesto storico. A scuola ci avevano insegnato dei
soldati australiani che avevano combattuto a Gallipoli, delle eroiche
gesta di Simon e del suo asino, della dura vita nel deserto dell’
Al’mien, desolato e senz’acqua, e dei molti caduti australiani. Ci
avevano anche parlato della Marcia degli ANZAC e del monumento ai caduti
che sorge in St Kilda Road.
Niente di quello che allora sentivo e vedevo corrispondeva ai racconti
dei miei genitori ed io mi chiedevo di cosa parlassero: forse di
avvenimenti minimi che essi ingigantivano per far impressione su noi
giovani? Anche quando facevo delle domande tutto era confuso e difficile
da capire perché avevo acquisito una visione del mondo dettata da una
visuale Australiana alla quale andavano ad aggiungersi la mia immaturità
ed una cattiva padronanza dell’ italiano.
Questa difficoltà di comprensione era un aspetto commune della nostra
realtà. Ad esempio: eroi della cultura angloceltica erano Sir Arthur,
Robin Hood, I grandi re e le grandi regine d’Inghilterra, Sir W.
Churchill ecc. Ed io pensavo che simili personaggi potessero esistere
solo nel mondo anglosassone. Se c’erano stati degli eroi italiani di
pari statura non ne avevo mai sentito parlare. Sì, I miei genitori mi
parlavano di Garibaldi, Manzoni e Verdi, ma di questi personaggi non
sentivo mai parlare dai nostri insegnanti a scuola. Il programma di
assimilazione inventato dalle autorità australiane funzionava, eccome!!
La stessa cosa succedeva quando mio padre raccontava delle sue molte
esperienze in Russia durante la Guerra: io lo ascoltavo ma nella mia
mente sapevo solo dei soldati australiani e americani che avevano
combattuto a Pearl Harbour, in Giappone e in Europa. Al cinema davano
film che parlavano delle grandi battaglie vinte la loro ed io dopo un
po’capivo che gli italiani erano per lo più il nemico. E da parte
italiana sembrava quasi si volesse rinnegare il propio passato, non
c’era nessuno pronto a confermare le esperience dei miei genitori, a dar
loro il giusto valore.
E non c’è da stupirsene poiché anche di recente, fra le varie difficoltà
incontrate nell’intervistare, in Italia, anziani amici e parenti, c’era
il fatto che questi sembravano divenire sospettosi quando facevo troppe
domande non potendo capire in quale misura noi, che viviamo così lontani
da loro, abbiamo bisogno di sapere dei nostri avi, delle nostre radici.
Quando si trattava di religione, I miei genitori parlavano delle grandi
festività italiane: di S. Antonio, di Santa Rita, delle Vergine Maria,
di San Francesco e di tutti quei santi a cui si chiedeva aiuto nei
momenti di bisogno. A Pasqua c’erano le grandi celebrazioni, I vestita
della festa, il baccalà, la colomba, I crostoli, e la stessa cosa
succedeva a Natale, con la pinza. Queste festività riunivano l’intera
comunità, tutti vi prendevano parte; ma questo non corrispondeva alle
mie esperienze religiose in Australia, né a scuola né in chiesa. Né da
parte Australiana si voleva capire che noi italiani praticavamo un
cattolicesimo diverso. I preti irlandesi-australiani erano rigidi e
pensavano che noi italiani avessimo troppe feste e troppo feste e troppo
paganesimo nella nostra religione. Non capivano che per noi la religione
era mescolata alla cultura e alla vita di ogni giorno.
In Australia esistevano I paramenti, le celebrazioni, ma non stavamo
insieme dopo la messa, non si festeggiava nessuno dei nostri santi
personali. Certo la scuola faceva festa per il giorno di San Patrizio e
molti ragazzi marciavano alla presenza del Dott. Mannix, l’arcivescovo
di Melbourne, ma io avevo la chiara impressione che qui si celebrasse
una religione differente da quella conoscuita in Italia.
Per queste ragione, nel cercare di spiegare la varia natura di queste
nostre difficoltà, volgendo l’attenzione ai possibili lettori, ho
pensato in primo luogo ai miei figli ed ho raccontato in modo che, anche
in futuro, possano capire. E spero che per loro non sarà difficile
perché tutto è scritto, molto diversamente dai racconti dei miei
genitori che sono stati tramandati per via orale e sono stati spesso mal
compresi. E’ vitale che la prossima generazione di italo-australiani
capisca che la cultura degli italiani, di quelli provenienti dal Veneto,
dal Friuli o da qualunque altra regione, non è solo pizza, pasta e
mafia, luoghi comuni che appartengono solo ad una mitologia diffusa dai
media australiani. Noi siamo molto, molto più di questo: siamo gente
intelligente, facciamo parte d’un ricca cultura con I propri eroi, I
propri successi. Veniamo da un popolo orgolioso e onesto. E la nuova
generazione di italiani d’Australia dovà perseverare nel mostrarsi fiera
di questo immense patrimonio che le appartiene.
Questo libro nasce da motive vari e di varia natura. Prima di tutto,
essendo appassionata di storia mi sono resa conto di come, con la morte
dei nostri genitori o dei nostri nonni, di quelle generazioni insomma
che ci hanno preceduto, vada perduta anche una considerevole quantità di
informazioni. Per questo motivo, dopo la morte di mio padre, il prender
nota dei fatti e dei ricordi di famiglia è divenuto per me ancora più
importante.
Altro motivo di natura, se vogliamo, più ‘personale’, va ricercato nel
contesto dei miei studi di Storia post-laurea. Avendo sottoposto un mio
lavoro all’insegnante, mi sono vista assegnare, per il contenuto, un
voto molto alto seguito però da un chilometrico commento sulla cattiva
qualità del mio inglese scritto. E sì che ci avevo lavorato sopra,
stesura dopo stesura. Fu in quel momento che decisi di impegnarmi nel
migliorare il mio inglese e abbandonai gli studi che avevo in corso
ripromettendomi di ritornarvi, magari da lì a cent’anni. E cominciai a
scrivere, a scrivere, a scrivere.
V’è poi una specie di ‘dovere storico’ verso I miei figli. I sociologi
hanno da tempo appurato che il mantenimento di una cultura avviene
soprattutto grazie all’elemento femminile: la madre. Personalmente credo
che ciò sia vero in quanto, nel corso degli anni trascorsi in famiglia,
sono stata costantemente esposta ai racconti di mia madre riguardanti
storie e miti sui nostri antenati. Sono portato a credere che anche lei,
a suo tempo, abbia udito un pari numero di storie e leggende narrate da
sua madre con cui ebbe a passare tanti anni assieme. E dunque ora, in
quest’epoca che vive all’insegna della velocità e del computer, ho
scritto quei racconti per I miei figli, per I lori figli e per quelli
che seguiranno. Per quel che riguarda me personalmente, la vita è stata
così varia e piena di contrasti che a volte mi sembra di aver vissuto
due secoli in un relativamente breve spazio di anni.
Sono venuta al mondo fra le mura di casa, al lume di una lanterna, in
una stanza dal pavimento ineguale dove, fra le fissure dei mattoni di
tanto in tanto si facevano spazio e crescevano le erbacce. Vivevamo a
Mure, un paesetto a circa trenta chilometri a nord di Venezia, in una
zona che a quel tempo si stava ancora riprendendo dagli effetti della
Seconda Guerra mondiale. Mure era un paese semi-feudale dove si viveva
una realtà che potremmo definire settecentesca, con tre famiglie di
nobili conti che avevano il possesso di quasi tutti I terreni
circostanti. In generale I nuclei famigliari dei contadini che
coltivavano quelle terre vivevano insieme in caseggiati che ospitavano
dalle sessanta alle cento persone. Le strade non erano asfaltate, non
c’erano né elettricità né acqua corrente ad eccezione di quella malsana
del pozzo in cortile, non v’era altro sistema di fognature al di fuori
del ‘corte’, il letamaio, dove si gettavano a decomporre tutti I rifiuti
che venivano poi sparsi sui campi come fertilizzanti.
Negli anni Cinquanta, all’età di sette anni, sono emigrate con I miei in
Australia dove abbiamo sofferto umiliazioni, razzismo e privazioni assai
più gravi di quelle che avevamo subito in Italia. Questa esperienza mi
ha segnato per sempre.
Crescendo, ho sviluppato nuove capacità continuando a studiare part-time
per migliorare la mia vita ed ora, a quarantanove anni, ho raggiunto
l’altra estremità dello spettro a quasi ventimila chilometri da dove
sono nata, proiettata in uno stile di vita che probabilmente potrà
essere meglio capito nel secolo a venire, un’esistenza che a volte trovo
difficile da sopportare tanto mi è estranea con quel continuo viaggiare
e muoversi nell’alta società, con le sue cene e le serate all’opera, con
il vivere da arrivati frequentando alberghi da “tre lenzuoli”.
Sotto certi aspetti questo libro, quanto al genere, potrà apparire pieno
di ambiguità visto che non è un’autobiografia e neppure un’opera a
sfondo sociologico o una dissertazione a carattere storico ma una
combinazione di questi tre elementi.
Scrittrici femministe sostengono che gli scritti di donne differiscono
da quelli degli uomini perché le donne hanno una diversa percezione
della vita e del mondo che le circonda. Personalmente ho scelto di
scrivere di ciò che io ritengo importante e cioè dei rapporti fra
persone e dell’interagire di queste ultime col mondo e con gli eventi.
Se anche mi sono servita di forme che possono essere considerate tipiche
dello scrivere maschile visto che uso, quail punti indicatori, epoche,
date ed eventi, ho cercato di concentrarmi sulle persone, I loro
sentimenti, la loro cultura, la loro religione, la loro lingua e le loro
aspirazioni.
Il lavoro si dipana attraversando due culture e, allo stesso tempo, due
realtà storiche; a volte passo dal dialetto Veneto all’Italiano ed
all’inglese. Questo libro può essere meglio descritto paragonandolo al
lavoro di un archeologo venuto in possesso di un certo numbero di
piccolo frammenti di vaso antico riccamente decorate. Ogni frammento
viene ora inserito all’interno di una struttura preordinata e di cui
l’archeologo conosce l’esistenza attraverso I suoi studi. Allo stesso
modo io ho acquisito piccolo frammenti di storia orale, di racconti e
leggende dai miei genitori, dai parenti ed attraverso le mie esperienze
personali li ho ordinate all’interno di una struttura frutto dello
studio del mondo come era all’epoca.
Per rendere la narrazione di più facile comprensione I capitoli sono
stati sistemati in ordine cronologico. Il libro si divide in due parti:
nella prima guardo alla storia, alla geografia ed alle guerre della
gegione Veneto perché, come lo scrittore Morris West, credo che “il
tessuto del territorio impone il tessuto della storia che si svolge
sulla sua superficie. Il tessuto del territorio permea di sé gli uomini
che l’hanno abitato per un certo periodo e che vi sono sepolti. Cambia I
contorni e cambierai gli uomini e la storia, allo stesso tempo cambierai
I loro culti e le loro storie, le loro visioni ed I loro dei. Lì, se hai
occhi per leggere, fu scritta la storia: il passato, il presente ed
almeno una parte del futuro”(1)
(1) West, Morris. A view from the Ridge, p.12 – “the texture of the land
imposed the texture of the history, enacted upon its surface. The
texture of the land imprinted itself upon the men who inhabited it for a
space and were buried under its soil. Change the contour and you changed
the men and the history, all at once you changed their cults and their
fables and their visions and their gods. Thee if you had eyes to read,
the story was written – past, present and at least some of the future”.
E’ in questo tipo di contesto che rivolgo la mia attenzione alle
persone: alla famiglia Ruzzene, la famiglia di mio padre, ed ai suoi
antenati, e alla famiglia Claut, la famiglia di mia madre, per seguire
poi le varie generazioni attraverso la loro vita, la cultura, la
religione, le guerre, le difficoltà e l’emigrazione.
Tocco un certo numero di punti che possono non corrispondere alle
opinioni espresso dalla cultura italiana in generale, questo perché il
mio lavoro si riferisce per lo più alla regione Veneto-Friuli in cui la
lingua, la cultura e le festività religiose sono diverse da quelle delle
alter regioni italiane. Dopotutto, l’unificazione italiana è ancora più
recente della fondazione dell’Australia federale.
In genere mi riferisco ai miei genitori usando I loro nomi di battesimo
ma, dopo la mia nascita, sottolineo il mutamento di situazione e ‘Marie’
diviene ‘mamma’ mentre uso la parola ‘padre’ invece di papa perché
eravamo soliti chiamare mio padre Nanetti, un diminutive per Giovanni
dovuto al fatto che mia madre lo chiamava Nane, parola a cui noi bambini
appiccicammo il “tti”. Devo dire che mio padre non fu mai turbato da
questa apparente mancanza di rispetto da parte nostra ed in seguito ho
scoperto che lui e la sorellina erano soliti chiamare loro padre con il
nomignolo di Arghi.
Ho scelto di dedicare ai miei genitori due capitoli separate sia a causa
della loro individualità sia per le diverse prospettive con cui vedevano
il mondo attorno a loro. Mio padre, come uomo, si è trovato a
partecipare alla vita pubblica di tutti I giorni lavorando, come
capofamiglia, in una officina meccanica e prestando servisio, da
soldato, in varie nazioni. Mamma, invece, ha vissuto la sua vita nella
sfera del privato: la casa, le gravidanze, il crescere I figli, la cura
degli anziani genitori e della casa. Ma se il capitolo dedicato a mamma
potrà sembrare più incolore se paragonato a quello dedicato a mio padre,
ciò è in parte dovuto a come la società occidentale vive I rapporti
sociali e cioè dando maggior importanza a quanto accade nella sfera
pubblica. Voglio dire che noi glorifichiamo I soldati, gli artigiani,
gli avventurieri ed I politici, e poco o nulla si dice dell’appoggio di
cui essi godono da casa – dalla moglie, dalla madre, dai figli. Il
maschio è come una quercia, ne vediamo I rami, le foglie e tutta la
virile bellezza, ma non ne vediamo l’aspetto femminile, quello che ne
provvede il supporto: le radici e la loro capacità di portare nutrimento
così che I rami e le foglie possano crescere.
La Storica Gerda Lerner sostiene che “la poca visibilità storica delle
donne è spesso dovuta al fatto che le cerchiamo in quelle stesse
occupazioni, in quelle stesse carriere seguite dagli uomini e perciò non
le troviamo”(2). Noi guardiamo alla cima della quercia e dimentichiamo
di guardare alle radici. Con tutto ciò il capitolo dedicato a mia madre
non deve essere visto come la descrizione della vita di una vittima ma
come quello dedicato ad una persona che ha trascorso la propria
esistenza dando sostegno, aiuto, assistenza: una vita motivate dai
valori dell’amore e del prendersi cura degli altri.
(2) Lerner, Gerda. The Majority Finds it’s Past – Placing women in
Histroy, p. XXXI X Intro – “the historical invisibility of women is
often due to the fact that we look for them in exactly the same
activities as are pursued by men, and thus we cannot find them.”
Ho dato un certo spazio agli avvenimenti riguardanti la Seconda Guerra
Mondiale perché credo che furono il motivo ultimo che costrinse la
famiglia Ruzzene a cambiare, ad abbondonare quelle abitudini, quei modi
d’essere seguiti lungo il corso di quattro generazioni. La famiglia fu
costretta ad emigrare ed a provare il trauma dello stabilirsi in una
nuova terra.
La seconda parte del libro è a sfondo socio-biografico. In essa guardo
alla mia vita di donna italiana emigrate gettata in un paese con una
politica assimilazionista, un sistema educativo inadeguato e un totale
disinteresse per la cultura italiana. Parlo delle esperienze del bambino
immigrato e delle enormi difficoltà che abbiamo incontrato ed affrontato
con poco aiuto da parte del governo, con di fronte a noi le costanti
barriere linguistiche e culturali. Conseguenza di tutto questo fu un
insufficiente sviluppo delle nostre capacità che mi portò poi ad essere
sfruttata nel mio lavoro in fabrica. Nei miei anni di adolescente
cominciai ad imparare un mestiere, frequentai le scuole serali e
sviluppai molte abilità di natura domestica.
Ho dedicato un capitolo al mio vicinato australiano mettendolo a
paragone con l’ambiente italiano. Ho anche dedicato un ampio segmento
alla religione ed alla Chiesa Cattolica per la loro importanza culturale
nel modo di pensare italiano e per il ruolo centrale che hanno avuto
riguardo alla mia istruzione, al mio modo di socializzare ed ai miei
valori esistenziali.
L’essere un emigrante, e per di più donna, è un’esperienza di vita unica
nel suo genere, presa fra due culture ed al tempo stesso partecipe del
processo di emancipazione femminile, in lotta contro la società
patriarcale. Spesso questi ostacoli mi sono stati dannosi e mi hanno
creato barriere ancor più alte da superare. Credo che essere un
emigrante, e per di più donna significhi dover crescere infrangendo il
pavimento di mattoni – lasciamo stare il soffitto di vetro!
Nonostante la continua lotta del nuotare contro corrente, assieme ai
miei fratelli ed alle mie sorelle ho cercato di migliorare la nostra
vita con l’acquisire pratica in vari mestieri e, più tardi, con gli
studi universitari. Di conseguenza la nuova generazione dei Ruzzene oggi
può dirsi giustamente fiera della propria posizione in una società
Australiana multiculturale ed in continua evoluzione.
Diana Ruzzene Grollo
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